La casa e gli oggetti di uso domestico

di Alberto Pucci

Esaminare gli oggetti utilizzati nella vita di ogni giorno vuol dire non solo riscoprire il modo di vivere di quel tempo, ma anche rendersi conto delle condizioni socio-economiche di Torri nella prima metà del Novecento[1]. Infatti, le attività lavorative quali l’agricoltura, la pastorizia e lo sfruttamento del bosco non possono non riflettersi nella casa, nell’arredamento e negli oggetti di uso domestico. La casa e gli utensili costituiscono con l’ambiente un legame inscindibile, perché era dalle risorse del territorio che, un tempo, dipendeva la vita.

I materiali più usati erano la pietra arenaria e il legno di castagno, dal momento che erano più facilmente reperibili. Per quanto riguarda il castagno, esso era utilizzato sia per i mobili che per gli utensili, perché aveva una più lunga durata rispetto al faggio, al carpine e all’acero, che, al contrario, erano più adatti per essere bruciati nel camino.

Con la pietra arenaria venivano costruiti i muri delle case. Venivano utilizzate pietre di forma irregolare che erano mescolate alla terra senza bisogno di particolari collanti. Una speciale cura veniva data ai conci angolari che venivano abilmente squadrati dagli scalpellini. Spesso, questi ultimi arricchivano gli stipiti e gli architravi di porte e finestre con eleganti motivi decorativi. I tetti erano coperti da lastre, così come il pavimento delle cucine. I suoli delle camere, invece, erano costituiti da tavole di legno di castagno, spesso di grossolana fattura. Sul soffitto delle cucine, perciò, erano visibili travi e travicelli che sorreggevano il pavimento delle camere sovrastanti.

Anche le pietre, tuttavia, avevano un valore non indifferente, nonostante che Torri disponesse di cave piuttosto vicine al paese. L’estrazione, la lavorazione e il trasporto a dorso di mulo incidevano notevolmente sul loro prezzo complessivo, per cui era frequente il caso di una loro riutilizzazione. Coloro che le reimpiegavano non guardavano tanto per il sottile, così abbiamo esempi di conci angolari con decorazioni capovolte o pietre squadrate che originariamente avevano una diversa funzione, come si può notare, per esempio, dai buchi che dovevano ospitare, precedentemente, l’inferriata di una finestra.

Le case del paese erano spesso unite le une alle altre. Blocchi di pietra più lunghi sporgevano dalle pareti in modo da collegarsi con l’edificio contiguo per ottenere una maggiore stabilità. Se poi l’edificio accanto non veniva costruito rimanevano isolate e ben visibili.

Le abitazioni di Torri si trovano al di sotto dell’antico “castello” che, posto su un’altura e circondato da mura, era in una posizione più facilmente difendibile. Sostituito in età romanica (XI-XII secolo) con una chiesa, poi riedificata dalle fondamenta a partire dalla seconda metà circa del XVIII secolo), doveva costituire, insieme alle case sottostanti, il probabile nucleo antico del paese. Con il passare degli anni, altri edifici si sono aggiunti, ma di questo periodo che va dal Medioevo fino al Settecento ci sono rimaste soltanto qualche data di fondazione e, forse, qualche elemento decorativo sul quale è visibile una datazione cinquecentesca. Le case che oggi vediamo risalgono ad un periodo compreso fra l’Ottocento e il Novecento. Anch’esse, purtroppo, sono state stravolte nel loro impianto originario, soprattutto a partire dagli Anni Sessanta del Novecento. Non solo sono state ampliate inglobando la capanna del fieno o la stalla per gli animali, ma sono stati costruiti balconi, allargate porte e finestre (perché il freddo oggi può essere affrontato con strumenti ben diversi di un semplice camino) e le vecchie lastre di pietra sono state sostituite da coppi di cotto e da mattonelle di ceramica. Per far passare le automobili, non si è esitato perfino a scavare l’angolo di un edificio.

Agli inizi del Novecento le case erano generalmente del tipo a capanna, anche se ve n’erano alcune con il tetto a più spioventi. Le finestre e le porte erano piuttosto strette e piccole per non far entrare il più possibile il freddo, anche se questo entrava comunque attraverso infissi non sempre realizzati in maniera adeguata. Per ripararsi dal vento e dalla neve, le case erano il più possibile raggruppate tra loro e gli spazi riservati alla vita della comunità erano ridotti al minimo. La piazzetta oggi denominata di Asprando era quella più importante del paese, poiché quella detta del Carnevale era tappezzata di orti ed era percorsa da uno stretto sentiero. Altri spazi a disposizione per socializzare erano i pozzi-lavatoi, come quelli del Pero e del Casone, lo spazio antistante la chiesa, la “pista da ballo” situata all’ingresso del paese e, soprattutto, la casa dove si invitavano i parenti e gli amici a “fare la veglia”. Le ricorrenze religiose, come la festa di Santa Margherita, quella di Santa Maria Assunta, il Natale (con il “focarone”) e la Pasqua, le “rogazioni” (processioni che attraversavano il paese) erano altri eventi utili per stare insieme o per conoscersi. La vita di comunità era importante, perché c’era bisogno dell’apporto di tutti quando si doveva ricorrere alla “spalata” della neve per liberare un sentiero, quando si doveva costruire un edificio, quando si doveva trasportare a piedi un ferito o un malato grave all’Ospedale di Pistoia. La frequentazione della scuola tenuta dal parroco, la partecipazione ad una determinata compagnia religiosa (a Torri ne esistevano diverse), la condivisione di un periodo di duro lavoro in Maremma contribuivano all’amicizia, alla solidarietà, tra le persone e, perché no, anche all’invidia e alla gelosia.

In questo contesto, perciò, si svolgeva la vita del paese.

Le case erano generalmente a due piani, collegati tra loro da una scala di pietra. In basso c’era la cucina e, in alto, la camera (o due camere). Eccezionalmente, nelle case più grandi, vicino alla cucina, veniva ricavato anche uno spazio da adibire a ripostiglio. Qui erano collocati soprattutto il bugno o il cassone di legno che servivano per contenere la farina dolce. Questa, ben pigiata, poteva essere preservata maggiormente dall’umidità rispetto alla cantina, dal momento che si trovava vicino all’unico ambiente riscaldato dell’abitazione. Il bugno o il cassone erano fatti in legno di castagno. Il primo aveva una forma cilindrica e un coperchio nella parte superiore. Il secondo, di proporzioni maggiori, era un parallelepipedo diviso in due, all’interno, da una parete verticale. Di conseguenza vi erano due coperchi sollevabili. Poiché era piuttosto alto, la fronte era costituita da assi disposte orizzontalmente l’una sull’altra che si incastravano nei sostegni laterali e mediano opportunamente scanalati. Era possibile, perciò, togliere le assi ad una ad una fino a raggiungere l’altezza desiderata.

Esistevano tuttavia altri ambienti addossati alla casa, non comunicanti fra loro e ai quali si accedeva dall’esterno. Questi erano la cantina (il cosiddetto terreno, perché il pavimento era in terra battuta), la stalla per gli animali e la capanna dove veniva conservato il fieno. Anche la stanza dei servizi igienici era situata al di fuori dell’abitazione e poteva servire anche per più famiglie. Solo le case dei benestanti avevano un vano adibito a tale scopo, posto sempre al piano terra o, tutt’al più, a metà delle scale. In ogni caso era piuttosto stretto, con una piccola finestra senza infissi. In posizione rialzata vi era una semplice buca collegata direttamente con la fogna e coperta da un coperchio a maniglia.

La cucina era l’ambiente più frequentato della casa. Non solo era il luogo dove si cucinava e si consumava il pasto, ma anche quello dove le donne filavano la lana o lavoravano a maglia e gli uomini svolgevano quei piccoli lavori di riparazione, specialmente durante i freddi mesi invernali quando era impossibile eseguirli all’aperto. In questo ambiente si invitavano gli amici e i parenti per fare la veglia o per recitare il rosario.

La cucina era riscaldata direttamente dal camino. A Torri i camini avevano una soglia in pietra piuttosto bassa e sporgevano di poco dalla parete. Il fuoco veniva acceso fra due pietre refrattarie (dette testaiole) che fungevano da alari.

All’interno della cappa, in posizione centrale, era posta un’asta di ferro che serviva a sostenere la catena. A questa venivano appesi, a seconda delle necessità, il paiolo di rame per scaldare l’acqua, cuocere la polenta, la pasta e le verdure, la padella, sempre di rame, che serviva per friggere, il tostino girevole con il quale si abbrustoliva l’orzo da usare come caffè.

Alla parete interna del camino erano appoggiati il soffietto per alimentare il fuoco, le molle per disporre la legna e la paletta per raccogliere la cenere. Ciascuno di questi oggetti, apparentemente banali, rispondeva ad un criterio di funzionalità. Basti pensare, per esempio, che il soffietto aveva ad un’estremità un’appendice a V che gli permetteva, quando era addossato verticalmente alla parete, di non avere il foro ostruito dalla cenere. Per non sporcare la base di pietra del camino con il fondo nero di fuliggine del paiolo, questo veniva appoggiato sul treppiede. Non era raro, tuttavia, che questo oggetto venisse all’occorrenza usato per arrostire sulla brace il baccalà, le aringhe, o altri alimenti poco ingombranti.

Spesso, al di sotto della cappa era collocato il forno. A portata di mano, perciò, era posta la pala per infornare il pane, una volta che la lievitazione era avvenuta sulla spianatoia. Questa era una semplice tavola di legno di forma decisamente allungata, con i bordi rialzati ad eccezione di uno dei due lati brevi che era liscio per favorire la presa della pala.

Sulla mensola del camino, abbastanza sporgente in modo da evitare che il fumo si disperdesse nella cucina, erano appoggiati vari utensili a seconda delle abitudini della famiglia. Fra questi vi era il portasale, una cassettina di legno con coperchio apribile che conteneva il sale una volta che questo era stato triturato nel mortaio di pietra. La sua collocazione accanto al fuoco si spiega con il fatto di proteggerlo dall’umidità. Accanto ad esso vi erano il macinino che, prima di essere usato per macinare il caffè, doveva essere servito per triturare l’orzo e gli strumenti per l’illuminazione.

Quando c’erano particolari lavori da fare e la fiamma del camino non era sufficiente per diffondere luce, si usava il lume ad olio, caratterizzato da un lungo manico verticale, a volte provvisto di un gancio per appenderlo. Il corpo presentava due aperture, una più grande, provvista di coperchio, che serviva per immettervi l’olio, e l’altra più piccola, in cui veniva inserito lo stoppino per l’accensione.

Poiché il lume ad olio si spengeva con estrema facilità, per uscire di casa quando era buio si usava il lume a petrolio, dato che la fiamma era riparata dal vetro e, soprattutto, la lanterna a mano. Questa aveva la forma di un parallelepipedo ed era costituita da un’intelaiatura di ferro, che reggeva i vetri, sormontata da un coperchio conico o cilindrico provvisto di fori in modo da permettere all’ossigeno di entrare. In tal modo la fiamma centrale, dovuta ad un lumino ad olio con stoppino centrale, poteva alimentarsi. Una cerniera permetteva l’apertura del lato che fungeva da sportello.

Utilizzata soprattutto per lavorare nelle gallerie, la lampada a carburo poteva essere usata, a volte, anche per l’illuminazione domestica. Il carburo di calcio veniva messo nella parte inferiore, mentre l’acqua era messa nel serbatoio posto nella parte superiore.

Sempre sulla mensola del camino potevano essere posti anche gli strumenti utilizzati dalle donne per la filatura. Certamente non la rocca, che era ricavata da una canna di giunco ed era lunga circa un metro e serviva per contenere la lana da filare, ma certamente i fusi di legno, che servivano per arrotolare il filo, e  l’arcolaio. Questo era costituito da una base piuttosto spessa e piatta e da una gabbia, ruotante attorno ad un sottile asse centrale, formata da bracci uguali collegati tra loro da assicelle. Praticamente vi erano due croci: quella superiore aveva i bracci di minore lunghezza rispetto a quelli della croce inferiore. Ciò determinava un’inclinazione verso il centro e due diametri di diversa misura che potevano servire per matasse di estensione diversa.

Sulla soglia del camino vi era poi spazio per altri oggetti, come il ferro da stiro in ghisa che, nella sua forma più evoluta, aveva una sede per inserirvi il carbone, o come il trespolo, a Torri chiamato testaiola per il fatto che contiene i testi di pietra di forma rotonda. Su questi vengono poste le foglie di castagno essiccate che permettono di cuocere i necci senza bruciarli. La farina di castagne era il prodotto per l’alimentazione più diffuso. Oltre alla polenta dolce veniva fatto anche il castagnaccio. La farina, in questo caso, veniva lavorata in un catino di legno ampio e rotondo.

Accanto al focolare vi era una cassetta per contenere la legna e, appoggiata alla parete, l’immancabile padella bucata dal manico lungo per proteggersi dal calore durante la cottura delle castagne.

Nella cucina, inoltre, c’erano un acquaio, i fornelli e, di solito, la conca del bucato.

L’acquaio era ricavato da un unico blocco di pietra. Generalmente si trovava al di sotto della finestra o comunque in prossimità di essa, se si sceglieva di mettervi in tal posto i fornelli di ghisa. Sopra l’acquaio si poteva notare uno o due catini di terracotta. Di forma troncoconica, erano smaltati all’interno con una verniciatura verde con macchie bianche e servivano sia per lavarsi le mani che per rigovernare.

I fornelli erano utilizzati per cuocere gli alimenti servendosi del carbone prodotto dal camino. Potevano essere fissi oppure mobili. Nel primo caso erano messi su un piano in muratura in alloggiamenti appositi con sotto un’apertura per inserirvi la brace; nel secondo erano invece trasportabili.

Il cibo veniva cotto in pentole e tegami di terracotta di varie misure, a seconda se si doveva cuocere i fagioli o preparare il sugo. Il vaso di ceramica di forma cilindrica e scanalato subito sotto il bordo, invece, non serviva per cucinare ma per conservare, opportunamente chiuso con una carta o un panno legati lungo l’incavo, prodotti alimentari, come parti del maiale o salsa di pomodoro, per esempio.

Sempre dentro la cucina (più raramente altrove) si trovava la conca del bucato. Questa collocazione può apparire strana, ma si deve pensare che per lavare gli indumenti o la biancheria serviva molta acqua bollente passata sulla cenere, per cui una collocazione vicino al focolare faceva risparmiare tempo e fatica.

I mobili della cucina, del resto, erano pochi: un tavolo con alcune sedie o panche, un seggiolone per bambini, se necessario, una madia, una credenza a muro (vetrina),una rastrelliera per appendervi le stoviglie (attaccarami). Tutti questi mobili, naturalmente, erano in legno di castagno.

La madia era accostata ad una parete e serviva per conservare la farina per fare il pane o la pasta. Aveva una forma a tronco di piramide rovesciato nella parte superiore e di parallelepipedo in quella superiore, si apriva sollevando in alto il coperchio ed era provvista, in basso, di cassetti e sportelli. Al suo interno si trovava un raschietto (rasiera), una lama trapezoidale con manico utilizzata per grattare i residui della farina sulla spianatoia.

Se i mestoli di legno di varie forme e dimensioni, la mezzaluna, il matterello e il ramaiolo (romaiolo)erano tenuti a portata di mano per essere subito usati, viceversa le tazzine, le ciotole, i bicchieri e la zuppiera erano riposti nella vetrina. Tali oggetti si potevano intravedere dalle ante a vetri della parte superiore del mobile, mentre la parte inferiore, chiusa, era comunque provvista di cassetti (dove potevano essere collocate le posate) e di due sportelli che si aprivano sui ripiani che reggevano piatti e scodelle.

All’attaccarami, invece, erano appesi soprattutto le teglie, le padelle e i coperchi di rame o di latta.

Dal momento che nelle case di allora mancava l’acqua, era necessario recarsi fuori per attingerla al pozzo. Stoviglie adatte a questo scopo, perciò, sempre presenti nella cucina, erano il secchio di rame e la brocca, anch’essa di rame, provvista di un ampio manico circolare impostato sulle estremità dell’orlo e di un beccuccio, in modo da assolvere alla duplice funzione di essere trasportata e di versare il liquido. Il vino, invece, veniva messo nel fiasco rivestito di vimini o di erba palustre.

Completava l’arredamento della cucina un semplice appendiabiti di legno che, se chiuso in alto da un piano di legno, era detto anche cappelliera, probabilmente per il fatto che in questo caso sopra vi si potevano appoggiare i cappelli.

La camera non era soltanto un luogo di riposo, ma anche quello dove, di solito, si nasceva e si moriva e dove, a volte, si era costretti a rimanere a lungo per una malattia.

L’arredamento di  questa stanza era limitato alle cose indispensabili. Il letto consisteva in due lunghe panche di legno unite fra loro da assi disposte orizzontalmente in modo da sostenere il cartoccio, un involucro a sacco riempito con paglia e foglie di granturco che fungeva da materasso. Solo in tempi più recenti, infatti, furono adottate le reti e le spalliere di ferro.

Al di sotto del letto era posto il vaso da notte, un recipiente in terracotta o, più frequentemente, in ferro smaltato, provvisto di manico per facilitare il trasporto. Accanto al letto veniva messa l’eventuale culla di vimini. Questa aveva una forma all’incirca ovale ed era caratterizzata da alte pareti, così da evitare la caduta del neonato. Altri accorgimenti funzionali erano la testata più alta, poiché il cuscino tiene più sollevata la testa del bambino, e i manici laterali che servivano per spostarla. Una struttura di legno, costituita da sottili assicelle arcuate in modo da creare un rigonfiamento, veniva posta sopra il neonato in modo da tenergli sollevate le coperte ed evitare così il pericolo di soffocamento.

Gli indumenti e la biancheria venivano messi nella cassapanca, che era una semplice cassa di legno che si apriva dall’alto sollevando il coperchio. Probabilmente deve il suo nome al fatto che poteva essere anche usata per sedersi, dal momento che nella stanza era collocata, al massimo, una sedia.

Per l’igiene personale veniva usato il lavamano che, nella sua forma più semplice, consisteva in una struttura di ferro opportunamente lavorata per accogliere una catinella, una brocca (detta brocco) e un piccolo portasapone di ceramica. In seguito, probabilmente per ragioni economiche, questi oggetti furono fatti in ferro smaltato. Nella forma più evoluta il lavamano era dotato anche di specchio.

Poiché la camera non era riscaldata, un oggetto molto utile per sopportare il freddo invernale era lo scaldaletto (prete). Era costituito da quattro assicelle lunghe e incurvate, tenute insieme da listelli. Nel punto di massima espansione, sia sopra che sotto, erano poste delle sottili assi larghe e piatte. Al centro di quella superiore era posto un gancio che aveva la funzione di reggere o un vaso di terracotta (scaldino) o di lamiera contenenti la brace. La sua funzione era duplice: quella di tenere sollevate le coperte per diffondere il calore e quella di evitare il contatto del recipiente caldo con le lenzuola.

Completavano l’arredamento della camera l’attaccapanni e una stampa incorniciata raffigurante una Madonna appesa al muro sopra la testata del letto. Solo in tempi più recenti fecero la loro comparsa i comodini e l’armadio di legno, per lo più di fattura rozza e senza ornamenti.

A. Pucci, La casa e gli oggetti di uso domestico, in Torri. Museo della vita quotidiana, Collezione Renzo Innocenti, a cura di P. Gioffredi, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Amministrazione Comunale di Sambuca Pistoiese, Amministrazione Provinciale di Pistoia, Comunità Montana Appennino Pistoiese, 2007, pp.93-95.


[1] Per un approfondimento e per la bibliografia si rimanda al saggio da me scritto recentemente: A. Pucci, La casa e le tradizioni della gente di Torri (Sambuca Pistoiese), Sambuca Pistoiese, Associazione per lo Sviluppo Turistico di Torri, 2007.